Quegli anni selvaggi (1956) di Roy Rowland

L’imprenditore Steve Bradford (James Cagney), che nella vita ha avuto tutto quel che voleva, si mette alla ricerca del figlio illegittimo, dato in adozione 20 anni prima. Si reca così all’orfanotrofio responsabile dell’adozione, dove conosce Ann Dempster (Barbara Stanwyck), direttrice dell’istituto, la quale però si rifiuta di fornirgli le attuali generalità del ragazzo, nel tentativo di preservare costui da ogni sofferenza.

Un buon dramma sorretto principalmente dall’ottima interpretazione di Cagney (che però non fu ripagato all’epoca da una buona accoglienza al botteghino USA), Quegli anni selvaggi è una pellicola che tratta di scelte sbagliate e recriminazioni sul passato, racchiuse in primis nella figura del protagonista. Nel corso del film, Bradford viene descritto come un uomo determinato a trovare il figlio perduto, la cui presenza viene correttamente bilanciata con quella della direttrice dell’orfanotrofio, in un ruolo scritto appositamente per la sobria presenza della Stanwyck.

E’ anche, però, un film su un tema delicato come quello delle adozioni e delle relazioni pre-matrimoniali, trattato in maniera sincera soprattutto per l’epoca in cui venne realizzato, e che molto probabilmente per questo fu un flop al botteghino. Ne è esempio lampante la figura della giovane ragazza madre interpretata da Betty Lou Keim, che nel corso della narrazione diventerà centrale per fare sì che il protagonista cancelli le proprie recriminazioni, guardando finalmente al futuro e non più a un passato fatto di errori.

A quasi 50 anni di distanza, questa pellicola va ricordata anche per la commovente sequenza dell’incontro (casuale) tra padre e figlio. Ne risulta una scena schietta e senza fronzoli, che lascia da parte manicheismi da soap opera, riuscendo a colpire per la bravura di Cagney, che qui seppe calarsi perfettamente in una parte per lui inusuale.